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Juve Atalanta, se il cuore serve solo per essere terzi
Juve Atalanta, bianconeri avanti di cuore ma ancora non vincenti. Questa squadra, dopo ieri, merita il terzo posto
Non è una novità non battere l’Atalanta in questi ultimi anni. Per certi versi, tenendo conto delle difficoltà patite in diverse circostanze, si potrebbe persino osare definire un teorema, una qualche forma di legge. Che andrebbe a considerare in questa gara, quando si disputa a Torino, la misura dei limiti avuti dalla Juventus, che sia quella di Allegri, di Sarri o di Pirlo, che pure proprio contro di loro in Coppa Italia ci ha resi vincenti come non sappiamo più essere. Anche se il pareggio di ieri non è un punto da disprezzare, uscendo ovviamente dalla normale constatazione che da noi una mancata vittoria non è mai accettabile. Ma nell’ottica di una volata per un posto in Champions, non è un brutto risultato contro una concorrente, se ci si mette in testa che bisognerà lottare e che, si spera, quanto visto in termini di reazione nella ripresa sia sufficiente per prendere 3 punti almeno con le avversarie più abbordabili. In primis il Genoa, domenica prossima.
La Juventus ieri ha vissuto più gare in una e non ha deragliato, lasciando intendere che alcuni aspretti positivi visti al Maradona non sono stati episodici. Ha avuto una buona partenza, sempre avanti, cercando la via tecnica, la precisione a scapito della velocità. Progressivamente la gara è diventata bloccata: le due squadre si schermavano bene e sono usciti fuori pochi tiri e opportunità. Nonostante la Juve abbia cercato qualche variabile, è la solita collocazione di Chiesa defilato di fatto a generare l’unica opportunità con il cross per Miretti, bravo peraltro a prendere molti falli nella fase iniziale. L’insufficienza del primo tempo è data dal chiudere in svantaggio su una punizione che l’Atalanta calcia benissimo, con uno schema che trova la squadra bloccata, totalmente incapace di opporre la reattività necessaria (una scena che sembra una variazione del gol di Raspadori nato sulla respinta di Szczesny). Koopmeiners è tipo sveglio, ce ne accorgeremo ancora nella ripresa, vede la porta e conferma quanto di buono da tempo si dice di lui. Ma la cosa peggiore, che lascia profondi dubbi quando si arriva all’intervallo, è stata la mancanza di reazione nervosa prima del riposo. Si è vista una manovra avviluppata, si sono trascorsi diversi minuti stabilmente nella metà campo avversaria senza trovare un’imbucata che sia una, talvolta non la si è provata neanche.
Come dire, ogni volta che dalla circolazione palla non si determinavano presupposti per verticalizzare – cosa che per la verità in precedenza stava riuscendo abbastanza – si torna indietro, quasi rassegnati a una sensazione che maggiormente circola negli ultimi minuti: la necessità di riordinare le idee, di trovarsi nello spogliatoio a organizzare un’altra strategia. La via tecnica, praticata nel primo tempo, non ha dato frutti. Vero, sarebbe stata una gara da 0-0, di reciproche capacità di annullare gli avversari. Ma così non è più, pertanto ci volevano altre caratteristiche per svoltare, trovare nuove risorse per evitare la seconda sconfitta di fila, che già sta dentro una sequenza di risultati alquanto negativi.
In questi casi può essere salutare, se non addirittura necessario, un intervento dalla panchina. Allegri non è avvezzo a cambiare durante la pausa. I primi minuti, per la verità, sembravano dargli torto: su lunghe fasi di palleggio dell’Atalanta i bianconeri non parevano in grado reagire, quasi avessero persino le pile scariche. E quando entravano loro in possesso palla, l’approssimazione di certi passaggi ha generato il sospetto che non abbia torto – per usare un’espressione leggera – chi ritiene il valore tecnico un nostro patrimonio di troppo lieve entità.
Ci voleva altro, poco da fare. Il cuore, si usa dire in questi casi (lo farà anche il mister, nella sua ormai tradizionale comunicazione di fine gara, alquanto povera di vero approfondimento); una convinzione che nasca anche dalla leadership di qualcuno, capace di infondere fiducia.
Si è visto tutto questo e anche di più nel momento del pareggio. Con Chiesa a salire in cattedra, una ferocia agonistica che già da qualche minuto determinava recuperi palla più alti e – ecco il di più – posizioni variabili dei giocatori: quando McKennie e Cambiaso agiscono sull’altro versante, si trovano a destra e colpiscono. E da quel lato, sulla forza del cambiamento d’inerzia, la Juve determina anche il 2-1 di Milik, quasi strappato a morsi. Ma 5 minuti dopo è arrivato il pari, dimostrando un’amara verità, che va oltre tanti discorsi fatti quest’anno: se noi andiamo sul centro ring, non siamo superiori alle concorrenti, ne diamo e ne prendiamo. Ottenendo in cambio di sentirci vivi, ma non vincenti. E questo sta succedendo da così tanto tempo che sarebbe un errore continuare a fingere che non rientri nella definizione di ciò che realmente siamo, peraltro illustrato dalla classifica: una squadra che merita di essere terza.