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Alberto Cei: «Cristiano Ronaldo è come Michael Jordan» – ESCLUSIVA

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Alberto Cei, presidente della Società Italiana di Psicologia dello Sport, ha parlato ai nostri microfoni della ripresa del campionato

Alberto Cei è il presidente della Società Italiana di Psicologia dello Sport, ma non solo. Il professor Cei è stato il consulente di molti atleti alle Olimpiadi di Pechino, ovvero Giovanni Pellielo, Erminio Frasca, Francesco D’Aniello, Daniela Del Din (S. Marino) Mansher Singh (India) e Giulia Arcion, curando la preparazione psicologica degli atleti italiani in ben quattro Olimpiadi. Gli atleti seguiti dal professor Cei hanno portato a casa ben 10 medaglie olimpiche. Intervenuto ai microfoni di Juventusnews24, Alberto Cei ha chiarito alcuni aspetti psicologici del mondo del calcio, tra vittorie e sconfitte, soprattutto alla vigilia della ripresa delle attività in Italia, fissata per il 12 giugno.

Mancano ormai pochissimi giorni alla ripresa del calcio in Italia. Si ripartirà senza tifosi: sarà questo l’ostacolo più duro da sormontare per i calciatori? 

«L’assenza del pubblico è una grande perdita nello sport. Le competizioni prevedono il pubblico, l’assenza del tifo e di quel tipo di passione rende monca la partita, perchè è proprio qualcosa che fa parte in maniera inscindibile delle partite di calcio. E’ un elemento che rende meno emotivamente coinvolgente il tutto, al di là che i giocatori non giochino da tre mesi». 

Mancando il pubblico viene meno quindi anche l’agonismo? Oppure c’è una sorta di paura di contagio nella contesa, pur essendo tutti atleti super controllati?

«Vedendo le partite del campionato tedesco si nota una diminuizione dei contrasti, un gioco meno fisico con meno falli e credo che questa sia anche, magari in maniera involontaria, una sorta di protezione da quello che potrebbe succedere. Questo è un altro aspetto che potrà marcare una differenza tra le partite che vedremo alla ripresa del campionato e quelle prima dell’emergenza Coronavirus che eravamo abituati a vedere». 

Assenza di tifo e una paura involontaria del contagio, dunque. L’aspetto psicologico influirà anche sulla tenuta fisica, dopo uno stop di tre mesi?

«L’agonismo è influenzato anche da questi due aspetti. Si tratta di professionisti come ognuno di noi e come noi hanno lavorato, o avrebbero dovuto farlo, anche nel periodo di lockodown magari non tutti con l’intensità di Cristiano Ronaldo, come visto sui vari siti e sui giornali. Certamente chi ha mantenuto questo atteggiamento e si è allenato in questa maniera, anche se non ha potuto farlo in maniera abituale sul campo, non dovrebbe risentire tanto dell’assenza delle competizioni. Penso che per i giocatori sia peggio stare fermi un mese in estate, non allenandosi e non seguendo una dieta, che stare due mesi senza giocare allenandosi invece o meglio seguendo una preparazione guidata». 

Cristiano Ronaldo appunto, la personificazione del successo attraverso il lavoro costante sul campo e il sacrificio negli allenamenti. La sua etica ricorda un po’ quella del compianto Kobe Bryant, leggenda del basket e dello sport a livello globale. Sono nella stessa sfera di competitività?

«Secondo me qui si parla di voler eccellere. Si usa spesso a sproposito la parola eccellenza: l’eccellenza è una cosa rara, altrimenti non sarebbe tale. È un po’ come quando Sacchi dice che i giocatori che cercava lui dovevano avere una motivazione straordinaria. Secondo me quei livelli di professionismo, come quello di Cristiano Ronaldo e di tanti altri campioni, richiedono quell’approccio altrimenti non stai lì, puoi essere un professionista valido ma è diverso. Abbiamo tutti visto ultimamente “The Last Dance” con la storia di Michael Jordan: Cristiano Ronaldo mi sembra molto simile, poi ovviamente ci sono le differenze di carattere delle persone ma credo che l’approccio di chi vince le Olimpiadi, come ho potuto constatare nella mia esperienza, sia molto simile. In psicologia dello sport questo atteggiamento si chiama “perfezionismo positivo” ed è la ricerca di tutto quello che può avvicinare alla perfezione, che è una cosa che ovviamente non esiste, però è positivo perchè è funzionale al raggiungimento degli obiettivi, sennò sarebbe un disturbo psicologico».

La Juventus riparte in campionato dal primo posto, ad un punto dalla Lazio e guarda al ritorno degli ottavi di Champions League contro il Lione, per il passaggio al turno successivo. I bianconeri sono sempre alla ricerca dell’affermazione europea anche per mettere fine a quella striscia di 7 finali perse. Cosa scatta a livello psicologico nella squadra nel cercare di raggiungere questo obiettivo?

«Diciamo che le tradizioni contano perchè fanno parte della cultura di una squadra, di un club. Ci sono sia quelle positive sia quelle che evidenziano dei limiti. Quello è un limite che la Juventus ha mostrato. Secondo me si deve lavorare molto sulla capacità di arrivare pronti in quel momento. Ci sono due aspetti: da una parte c’è la convinzione che si può, che l’obiettivo è raggiungibile da noi come squadra; dall’altra parte però si devono conoscere i propri limiti per avere i piani per superarli. Si devono avere sempre i piedi per terra, quindi sapere cosa serve fare per colmare con mentalità certi limiti, che non sono per forza tecnici o tattici. Molte volte i limiti sono frutto di un fardello, di un peso che uno si porta dietro per il dovere di vincere. Bisogna essere in grado di fare queste due cose. Come si dice, uno deve pensare cose straordinarie per poi riuscire effettivamente a farle e dall’altro lato deve avere l’umiltà di correggere alcuni errori che si presentano nel cammino di una stagione. Bisogna avere questo atteggiamento nei confronti di quella partita, se la Juve dovesse andare in finale». 

Maurizio Sarri, dopo la sconfitta con il Napoli, rilasciò alcune dichiarazioni che non piacquero particolarmente ai tifosi della Juventus. L’allenatore ha poi svelato la sua juventinità raggiunta anche grazie all’odio sportivo dei tifosi avversari. Cosa pensa di questo mutamento?

«Secondo me si dicono tante cose, soprattutto da parte degli allenatori che sono quelli che parlano un po’ di più. Io non so mai se credere pienamente a quello che dicono, sia di positivo che di negativo, penso sia vero al 30%, non ci darei peso. Se le prendi sul serio, significano delle cose però se magari uno le ha dette perchè fanno parte di un’idea che tu vuoi trasmettere, è diverso. Capisco che poi si scrivano sui giornali perchè sono parole che portano audience, però secondo me uno deve badare di più ai fatti, come gioca la squadra e vedere che cosa fanno, da qui tu puoi capire sia la volontà della squadra come collettivo (la tenacia, la capacità di combattere) e il lavoro dell’allenatore che infonde queste idee, vedere come le adatta perchè poi l’allenatore è un grande adattore».

Lo sport è uno dei veicoli sociali più potenti, riuscendo a far circolare messaggi attraverso i suoi campioni, con la spinta dei social. E’ questa una delle essenze dello sport?

«E’ la storia dello sport che in un certo senso è nato così, per portare pace con l’istituzione dei Giochi Olimpici. E’ un po’ quello che stiamo vedendo negli Stati Uniti con il caso George Floyd. Secondo me succederà una cosa positiva da questo grande disastro. Persone comuni come noi o i grandi campioni, ad esempio Chiellini e Totti, più le multinazionali dello sport hanno trasmesso un messaggio comune. Un segnale positivo se si sviluppasse questa idea, con la trasmissione di un messaggio da trasmettere alle persone».

Si ringrazia Alberto Cei per disponibilità e cortesia mostrate in occasione di questa intervista

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