Hanno Detto
Buffon a Juventus TV: «Addio sereno e naturale. Ho fatto miei i valori bianconeri»
Ai microfoni di Juventus TV, Buffon si racconta in una lunga ed emozionante intervista. Le parole del portiere
Intervenuto ai microfoni di Juventus TV per ripercorrere la sua storia d’amore con la Juve, Gigi Buffon si racconta. Le parole del portiere, bianconero per vent’anni.
COPPA ITALIA – «Un bel finale. Se avessimo perso ci sarebbe stato qualcosa di stonato. Così abbiamo suggellato il fine rapporto con una bellissima vittoria e scene di empatia, amicizia e sentimenti tra me e i miei compagni, tra me e la gente. È stato molto bello».
ADDIO – «È stato un addio molto sereno. È un qualcosa che avevo già vissuto 3 anni prima e di conseguenza è un deja vu che ti dà già dei punti cardinali a cui aggrapparti per non patire troppo determinate situazioni. L’ho vissuto con naturalezza. Il fatto che io in questi due anni sia tornato lascia nella memoria della gente il fatto che uno se ne può andare ma può anche tornare. La paura della gente è quella di sentirsi abbandonata in certi momenti. Visto che sono tornato c’è anche la serenità di dire: “Dai che magari tra qualche anno Gigi lo ritroviamo tra di noi”. Questo fa digerire tutto in maniera più felice».
ESORDIO – «Il rito di iniziazione calcistica bianconero l’ho avuto dai miei parenti veneti ma di base non sono mai stato juventino. In tutti questi anno poi lo sono diventato. Ho capito determinate dinamiche, ho fatto miei determinati valori e quindi adesso sono più felice di allora perché sono juventino con coscienza. Ho scelto di essere juventino. L’ho capito e questo è un qualcosa che mi fa piacere. Molti lo diventano per eredità e non se lo domandano neanche se sono contenti di esserlo. Io lo sono diventato e questo è il regalo più bello e più grande. Quella giornata la ricordo, avevo tensione come in finale di Champions. Nemmeno nell’immaginario più felice ed ottimistico avrei pensato di essere nel 2021 ancora alla Juve come portiere. Ci vogliono tante cose per poter fare un percorso simile e non pensavo di poterle avere e di poter mettere nella mia professione una determinazione, una professionalità e una classe del genere. Devo anche dire che secondo me questa carriera così lunga sono riuscito a farla perché sono stato permeato del DNA e valore della Juve: lavoro, professionalità di volersi migliorare. Questi valori hanno fatto la differenza».
ORGOGLIO – «Non c’è un qualcosa di specifico. La Serie B non è stata una penitenza. L’ho fatto di botto e senza pensarci troppo sono sceso. Le cose le faccio in maniera istintiva, magari a volte sbaglio ma ho quelle sensazioni animalesche che mi fanno capire ciò che è giusto per me».
PIÙ FORTE DELLA STORIA – «La cosa vera è che non ho mai pensato a questa etichetta. Mi fa piacere sentire la stima della gente, è innegabile. Per certi versi è anche una conferma che tu hai e ti fa capire che sei sulla strada giusta. Anche il giudizio degli altri, se lo reputi onesto aiuta. Non mi piace fare questo discorso perché il calcio è cambiato tantissimo ed è più difficile di altre epoche ma ci sono anche strumenti che prima non c’erano e che non permettevano ai giocatori di esprimere il massimo. Credo che nel calcio ci siano veramente tante icone e voler per forza trovare il più bravo non ha senso. È una cosa che trovo poco sportiva. Ci sono delle icone e le icone rimangono tali. Anche quando parlano di Pelé, Messi, Maradona, Cristiano… Perché bisogna trovare il migliore? Sono stati straordinari, accontentiamoci di questo. Questa cosa mi sta sul c***o in ambito sportivo».
GOL – «Quando ho detto che non esistono gol imparabili, era un’iperbole. Però se io rivedessi tutti i gol presi, su quasi tutti avrei da ridire e direi: “Questo potevo non prenderlo”. La prima cosa che conta nella vita se vuoi migliorare è quella di essere autocritico. Ho avuto questo insegnamento da mio padre. Lui intravedeva quello che ero io. Essendo stato sportivo era critico con tutti. Se ho fatto quello che ho fatto è sicuramente perché ho sempre cercato la perfezione, sapendo che non ci sarei mai riuscito ma sapendo che ci sarei potuto andar vicino. Più vicino ci vai, più performi».
MOMENTO PIÙ FELICE – «A Trieste. Quando abbiamo vinto il primo scudetto con Conte. Era la chiusura di un cerchio, dava forza alle scelte che avevo fatto come giocatore. Abbiamo fatto un ciclo incredibile ma alla fine spesso pensavo: “Nel 2006 sarei potuto andare in ogni squadra ma ho sposato questa causa perché ci credevo”. Sei anni non sono mica facili. Ogni tanto qualche assillo e qualche pensiero mi era venuto. La verità è che però coltivo sempre una fede, una serenità che mi dice: “Comportati bene, fai le cose in maniera corretta che la vita ti ridà tutto anche in eccesso”. È stato così. Ho sofferto tanto per sei anni. Ero il portiere di riferimento e sono stato lontano dall’Europa per 3 anni. Però era quello in cui credevo».
MOMENTO PIÙ DOLOROSO – «Cardiff. La sconfitta ci poteva stare ma perché ci siamo disgregati e sciolti come squadra nel secondo tempo. Hai dato la sensazione di non essere competitivo per quel massimo livello ma invece non era così. Un discorso è perdere 1 a 0, uno perdere 4 a 1 sembrando scappati di casa. Mi ha fatto male. E l’altra cosa che mi ha fatto male è stata l’esclusione dopo il 3 a 1 a Madrid. È stata la serata più bella della mia vita: solo una squadra di folli poteva pensare di passare il turno, ma noi ce lo avevamo. Con i ragazzi dicevamo: “Dobbiamo rimanere aggrappati a quello 0,1% di possibilità” che poi era diventato 95. Durante la partita ero orgoglioso di giocare in una squadra simile fatta di uomini simili. Le immagini di Madrid non le ho più riviste».
PIANTO PER LA JUVE – «Difficilmente piango per un risultato. È come avviene il risultato che mi può far male e dar tristezza. La gara di Madrid è la più bella che ricorderò con la Juve. Solo degli uomini potevano fare una cosa simile».
PSG – «Al Psg non vedevo la Juve. Certi passaggi credo che debbano avvenire e fanno tornare ad un equilibrio solo col tempo. A Parigi ho vissuto un’esperienza bellissima e la rifarei altre volte. Mi ha dato tanto dal punto di vista umano. Mi sentivo un cittadino del mondo. Dal punto di vista tecnico era una squadra stratosferica, mostruosa. Non è che fossi abituato male eh, però quando vedi Neymar, Mbappé, Thiago Silva… Però devo dir la verità: una delle cose che mi ha fatto accettare di tornare quando Paratici me lo ha proposto, è il fatto che appena finiscono gli ottavi di finale, vinciamo in maniera agevole. Pensavo che saremmo arrivati in finale. La settimana dopo gioca la Juve e perde 2 a 0 con l’Atletico. La mia gioia personale per il Psg è stata disturbata dalla Juve. Ero in difficoltà. C’erano tutti i ragazzi che conoscevo e il fatto di non poter essere lì a dare una mano, anche con una parola, mi ha rotto le scatole. E poi qualche settimana dopo la conferma che nello sport succede di tutto: noi usciamo con lo United contro dei ragazzini e la Juve vince con l’Atletico. Mi sono detto: “Adesso sei contento, allora?”. Mi volevo buttare dall’ottavo piano, ho passato una settimana brutta. Ma per fortuna la Juve l’ha ribaltata».
PAURA – «Un po’ di paura ce l’ho sempre prima di una partita importante. Poi non so se sia paura o una forma diversa di uno stesso sentimento. Mi capita sempre una cosa strana: entro nello spogliatoio, mi metto la maglia e mi dico: “Adesso c’è solo da far vedere chi sei” e lì rifiorisco. Il rispetto di me stesso è importante e questo coraggio viene fuori».
DIRIGENTI – «Se io ho potuto dimostrare sotto tanti versi chi sono è perché sentivo l’incondizionata stima dei miei compagni, dei dirigenti, del presidente, dei tifosi stessi. Loro riponevano una stima che non potevo tradire. Ho sentito sempre una stima grande, la mia forza sono stati loro».
B-BBC – «Mi vengono in mente due cose: il legame, che è qualcosa di più rispetto ad un rapporto d’amicizia. È qualcosa che ti unisce in maniera più forte, e poi “ragazzi per bene”. Parlo per gli altri tre. Sono tre ragazzi veramente per bene e sarà difficile ritrovare gente simile nel mondo attuale».
SPOGLIATOIO PIÙ DIVERTENTE – «Tutti. C’è sempre stato un mix tra italiani e stranieri ma ci è sempre piaciuto farci contaminare dall’estro sudamericano. Abbiamo accolto tutti a braccia aperte e questo è uno dei motivi per cui Mario Mandzukic non voleva più andarsene via. Alla fine non dico che siamo tolleranti ma riusciamo a far star bene tutti. Con tutti si è sempre creato un bel clima, anche con Tevez, Pogba, Evra, Khedira… Penso che tutti siano stati bene».
ALZARE LA VOCE – «Non ricordo ma può essere che sia successo. Non sono cose che mi segno sul calendario. Se devo dire una cosa, la dico senza pensarci sopra. Alla fine la nostra forza è siamo responsabili, ognuno faceva la sua parte».
MANCANZA – «Come tutti i capitoli, quando si chiudono, mi mancheranno delle cose. Ho 43 anni, è nell’ordine delle idee. Questo capitolo della mia vita va chiuso. Penso che non avrò contraccolpi, di quello ne sono sicuro. Già 3 anni fa ero entrato nell’ottica dell’ex calciatore e smettendo avrei provato qualche dispiacere. Adesso no: se devo smettere, smetto. Sono felice, ho una bellissima famiglia, ho tanti interessi che mi stimolano e che sono anche extracampo. E poi nella mia testa son sempre un sognatore e ho un milione di cose da fare. L’importante è svegliarsi e sapere che c’è qualcosa di speciale da fare».
SECONDO PORTIERE – «All’inizio non ero molto convinto. A Fabio avevo detto: “Richiamami tra due anni e chiedimelo”. Avevo alcune opportunità per fare la Champions in squadre europee ma mi sono detto: “Hai 41 anni, ci sta che il prossimo anno ti si appannano i riflessi, la vista”… In realtà li sto ancora aspettando e mi sono detto: “Prova ad entrare nell’ambito di idee di mettere davanti il Gigi padre”. Louis e Dado erano felicissimi di venire a Parigi due fine settimana al mese ma li stancavo e mi sono detto di dar priorità a loro. Poi c’era la possibilità di chiudere un cerchio e la chiusura del cerchio non era nel 2018. C’era ancora un annetto/due da fare. Poi potevo giocare con Ronaldo e mettermi alla prova. Il numero uno lo sono stato per tanto tempo e sapevo che sarebbe stata una sfida. Questa esperienza mi ha insegnato tanto. Tra tutte le cose che il rispetto per i miei compagni è sempre la cosa che mi è interessata di più. L’ho fatto volentieri e lo rifarei. Poi se un giorno dovessi fare l’allenatore, direi ad un giocatore: “Ci sono stato io in panchina, ci puoi stare anche te”».
JUVE – «La Juve è un qualcosa di importante. Non voglio dire che è una seconda pelle perché non voglio abusare. La Juve per me è stato come aver fatto un master di calcio. Aver avuto l’onore di rappresentarla mi fa sentire fortunato. Più di così non potevo avere. Una cosa che mi ha disturbato quest’anno, e che è stato uno dei motivi per cui ho detto che sarebbe stato l’ultimo anno, è vedere che il clima di tifo e gioia nei confronti della squadra è venuto meno. Alle prime difficoltà senti accuse e polemiche che i veri tifosi non fanno. Non è che alla prima difficoltà affossi i giocatori. Questo non mi piace. Un’altra cosa è stata che quando ho giocato a Barcellona c’era la polemica: “Ma perché gioca Buffon? Gioca perché è amico di Pirlo”. Ho detto: “Devo uscire da questo mondo di pazzi”. Significava non avere coscienza di chi sono io. Se avessi avuto la sensazione di non poterlo fare, mi sarei tolto di torno. Regali io non ne voglio. Dopo quella partita poi ho riavuto tutto».
FUTURO – «Ho bisogno di staccare, da maggio abbiamo giocato ogni 3 giorni. Sono più rincoglionito del solito. Voglio riposare e mettere nel mio serbatoio energie nuove perché qualsiasi tipo di scelta, non voglio pentirmi e voglio farla con serenità e convinzione e questo puoi farlo solo se sei riposato».
CARRIERA – «Oggi sono felicissimo, posso anche smettere. Penso di aver fatto abbastanza in carriera. Quello che conta è il discorso esistenziale e io sono un persona che sa di dover migliorare ancora alcune cose, ma sono contento di come sono venuto fuori come uomo in questi 20 anni».