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Del Piero: «Spero che le scelte della Juve la riportino a vincere in Italia e in Europa. A chi mi chiede di tornare rispondo questo»

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Del Piero: «Spero che le scelte della Juve la riportino a vincere in Italia e in Europa. A chi mi chiede di tornare rispondo questo». Le parole dell’ex capitano bianconero

Alessandro Del Piero, ex capitano della Juventus, si è raccontato in un’intervista al Corriere della Sera.

NUMERO 10 – «Non cambio idea: racchiude genialità, imprevedibilità, la capacità di far vedere cose che gli altri neanche pensano siano possibili o immaginabili. Spesso si dice che i numeri dieci sono incompresi. È vero, perché non stanno nelle regole. La storia calcistica del numero dieci racconta di un ruolo i cui interpreti avevano la possibilità, rispetto ad altri giocatori, di curare più il proprio gioco, erano meno assillati dai doveri tattici. Assicuravano estro, fantasia, capacità di risolvere situazioni o partite ma in cambio godevano di libertà. Poi il calcio ha cominciato a cambiare, proprio nel mio periodo. Si è cominciato a chiedere al dieci di essere come gli altri, di farsi carico delle esigenze tattiche, di essere imbrigliato in un meccanismo che deve essere perfetto».

NUOVO CALCIO – «Molte nuove generazioni di allenatori e giocatori crescono nel mito di Guardiola, che applica quella filosofia di gioco. Poi lui fa bene, vince, quindi, nel senso comune, ha ragione. Però in Inghilterra ci sono realtà che si esprimono in modo diverso. Klopp ha un’altra filosofia, pensa il calcio in verticale. E anche lui ha vinto. Questo rende difficile immaginare che, anche nel calcio, possa dominare un “pensiero unico”. Aggiungo: per fortuna».

PLATINI – «Platini credo mi piazzerebbe tra i nove e mezzo perché spesso ho ricoperto il ruolo di seconda punta, talvolta persino di prima. Io però sarei curioso di sapere Platini come considera sé stesso. Perché l’ho visto varie volte agire come attaccante, cercare il gol, tanto che è stato anche capocannoniere del campionato. Tardelli, Furino, Bonini lo hanno aiutato parecchio…».

SETTORI GIOVANILI – «Non conosco bene i settori giovanili, ma riconosco la filosofia di molti tecnici, la loro concezione del gioco. Oggi la prima richiesta è quella della fisicità. Ci sono settori giovanili nei quali se un ragazzo non è nato entro marzo, neanche ti guardano. Calcola che io sono di novembre e giocavo con ragazzi nati a gennaio, che avevano quasi un anno in più di me. E a tredici o quattordici anni quel tempo fa la differenza, in primo luogo fisicamente. L’allenatore delle giovanili bravo non è quello che vince il campionato della sua categoria, ma chi porta il maggior numero di ragazzi al livello superiore. Chi fa quel mestiere deve sentirsi un formatore, un insegnante di calcio e invece spesso si punta solo a vincere, perché se si arriva primi nella propria categoria allora si farà carriera. È il metro di giudizio, che è sbagliato. Ciò che conta è quanti ragazzi sono migliorati, non quanti punti hai fatto nella stagione».

CALCIO ITALIANO NOIOSO – «Qui si apre un argomento complesso. I dati sono chiari. Il calcio in Italia è diventato noioso, perché il livello si è abbassato, rispetto al passato. Qui venivano a giocare i più forti, i più grandi, tutti desideravano competere qua. Ora i più forti, i più grandi, vanno a giocare in Premier, nella Liga, persino in Francia o in Germania. Non qui. Questo vale per noi. Ma in Inghilterra il calcio non è noioso. Secondo me in questa disaffezione contano anche altri fattori. In primo luogo l’irruzione delle tecnologie. I telefoni, i videogames hanno un livello di soddisfazione del bisogno di divertimento incomparabile con quello della mia infanzia. La società digitale ci fa vivere meglio, ma ci toglie creatività».

SCOMMESSE – «È un argomento grande e complesso, per me sono cose difficili da comprendere. Lo sport deve bastare. Per me c’era solo il campo. Esistevano regole precise che riguardavano droghe e scommesse. Non avrei mai fatto nulla che potesse in nessun mondo rovinare il mio sogno. Né prima, quando ero giovane, né dopo, quando ho avuto successo».

COSA SUCCEDE ALLA JUVE – «Nella Juve sei sempre sotto pressione. Quella società è, comunque, un punto di riferimento. Non solo per i tifosi bianconeri. Credo che tutti, dopo aver chiesto del risultato della formazione del cuore, si informino di cosa ha fatto la Juve. Sperando il meglio o il peggio. Comunque è una società centrale, nella storia del calcio italiano. È molto di più di una squadra di football. Quando hai tante pressioni, tante responsabilità e affronti momenti di cambiamento, passaggi generazionali e conclusioni di cicli fortunati, è ovvio che non tutto possa andare nel verso giusto. È in corso un riassestamento, e da tifoso mi auguro che le scelte fatte siano corrette perché speriamo di tornare a vedere una Juve che possa dire la sua non solo in Italia, ma in Europa».

PERCHE’ DEL PIERO NON E’ ALLA JUVE – «Per il mio percorso, per tutti gli anni nei quali abbiamo condiviso tantissime gioie e anche il momento più buio della serie B, con la Juve ho costruito un rapporto speciale. Non solo perché tifo bianconero, ma perché diciannove anni sono davvero tanti. Le persone mi chiedono: “Perché non torni alla Juve?”. Io rispondo che non devo tornare, perché non sono mai andato via. Quando passi tanto tempo e tante esperienze in una comunità le radici affondano nel terreno. Ok, oggi non ci lavoro, va bene — magari in futuro le cose cambieranno, chi lo sa? —, ma non mi sentirò mai lontano. Una parte importante del mio cuore è lì. E lo sarà per sempre. Sempre dalla stessa parte».

CALCIO ARABO – «C’è la volontà da parte del mondo saudita di dire la propria sul calcio: si stanno organizzando, hanno dei fondi incredibili e questo, diciamoci la verità, aiuta il loro progetto. Delle volte è veramente difficile dire di no, altre ci si può riuscire. Dipende, dipende anche da quello che ciascuno cerca. Sul discorso Mancini posso solo dire, vivendo tanto all’estero, che, in generale, abbiamo veramente fatto una brutta figura».

GIORNO CHE VORRESTI RIVIVERE – «Il 9 luglio 2006, quando vincemmo i mondiali. Ho tutto dentro, di quel giorno. Come fai a spiegare la completezza sportiva, emozionale, persino spirituale che vive in quel momento un ragazzo che ha passato tutta la vita con quel sogno, che ha vissuto il calcio come una passione che ha occupato ogni momento, che non ha pensato ad altro per anni e, alla fine, riesce a farcela? Farcela con quella semifinale, con quei rigori che se li sbagliavi precipitavi in un incubo… È una bellezza totale, quella che ho vissuto in quel momento. Una piena, integrale bellezza. Inspiegabile, irripetibile».

GIORNO CHE NON VORRESTI RIVIVERE – «L’8 novembre 1998, il giorno dell’infortunio. È stato terribile. Fermo un anno, quando ne avevo ventiquattro, con l’ansia e l’incertezza del recupero. Però ho scoperto una forza d’animo che non conoscevo, una capacità di sofferenza e di reazione che mi ha consentito di trarre il meglio anche da quel dramma».

PADRE – «Mio padre era un leader silenzioso. Crescendo, diventando a mia volta padre, ho capito tante cose in più di lui. Io l’ho vissuto poco, a tredici anni sono andato via di casa. In quel momento pensi ad altro, sei in crescita. Non riuscivo a dare il giusto peso ai miei, ma poi riesci a renderti conto della loro importanza e questo ti consente di avere con loro un rapporto bello, come è giusto che sia. Mio padre faceva l’elettricista, mia madre prima la colf e poi la baby sitter. Era una persona di un’umiltà pazzesca, si rimboccava le maniche, si spezzava la schiena per far star bene la sua famiglia. Papà non parlava tanto, ma ricordo quando incontrai lui e mamma dopo che avevamo vinto la Champions. Penso che in quei momenti loro due abbiano rivisto tutto il nostro percorso di vita, tutte le paura e i sacrifici vissuti. Avevano le lacrime agli occhi. Erano orgogliosi non di Del Piero, ma del loro Alessandro».

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