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Caremani: «Dimenticare l’Heysel come uccidere due volte le vittime» – ESCLUSIVA

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Francesco Caremani, autore del libro “Heysel: una strage annunciata”, parla in esclusiva su JuventusNews24

Da 35 anni anni il 29 maggio è una data che fa male, malissimo. Una data che molti vorrebbero dimenticare ma che invece deve essere ricordata per far in modo che non accada più. Il 29 maggio del 1985 39 persone morirono in una delle più grandi tragedie calcistiche. 39 vite spezzate prima del fischio d’inizio della finale di Coppa Campioni allo stadio Heysel tra Juventus e Liverpool. Francesco Caremani, autore del libro “Heysel: una strage annunciata” è uno di quelli che più si è speso negli anni per ricordare e commemorare le vittime di quella immane tragedia. Queste le sue parole in esclusiva su JuventusNews24.com.

35 anni dopo cosa rimane di una delle più grandi tragedie sportive in Italia e nel mondo?
«Secondo me rimane la figura di Otello Lorentini. Rimane la figura di Otello per il semplice motivo perchè è lui che decide di fondare l’associazione dei famigliari, è lui che decide di portare i responsabili a processo perchè non accettava che l’unico figlio fosse morto per una partita di calcio. Roberto (il figlio ndr), tra l’altro, era un giovane medico volontario con medaglia d’argento al valore civile: morì tentando di salvare un connazionale nella curva Z. Facendo condannare i responsabili portò alla luce tutto. Una delle tante cose che non si ricordano dell’Heysel è che lui ha fatto giurisprudenza. La Uefa prima prendeva l’81% degli incassi degli stadi ma non era responsabile di quello che poteva succedere. Con quella sentenza lui la fa diventare responsabile, se oggi le Coppe europee vengono programmate, organizzate e gestite in un certo modo lo dobbiamo solo ad Otello Lorentini».

Quali sono le conseguenze che ha avuto la tragedia dell’Heysel nel breve e adesso 35 anni dopo?
«Nel breve la conseguenza più concreta fu l’esclusione delle squadre inglesi dalle coppe europee per alcuni anni. Però, secondo me, noi paghiamo ancora dazio per la mancata memoria. Io ho scritto il libro perchè Otello me l’ha chiesto e me l’ha chiesto perchè non accettava che questi morti fossero dimenticati. Per lui era come se li avessero uccisi due volte. Questa mancata memoria cosa ci ha portato? Basta fare due passi indietro: dal 1985 ad oggi cosa è successo negli stadi italiani? Di tutto, perchè ci siamo dimenticati l’Heysel. Quindi la mancata memoria, non solo della Juve, ma anche di Lega e Figc ha portato a quello che vediamo. Quando non si contrasta la violenza verbale e di altro genere poi si arriva alla violenza fisica. Nel 1995 con Vincenzo Spagnolo a Genova c’erano gli ospiti che abbandonavano le trasmissioni e gli studi…sono storie».

Come anche l’ispettore Raciti o il motorino giù dalla curva…
«La cosa che mi fa arrabbiare è che tutti parlano di Heysel ma nessuno ha mai studiato. Nessuno l’ha voluto capire e si continua a fare retorica».

All’interno del tuo libro quali sono gli episodi che ti hanno colpito di più e ti hanno lasciato più perplesso?
«La cosa che mi fa ancora arrabbiare è che bastava pochissimo per evitare quella strage. Io la chiamo strage perchè non si tratta di tragedia o fatalità. Innanzitutto il settore Z non esisteva perchè c’erano X,Y e Z come M,N e O per gli juventini. Quindi creano il settore Z con una rete da giardino, vendono questi biglietti e lì non dovevano esserci le famiglie italiane e se le metti di fianco agli hooligans deve esserci la polizia. Se vedi che succede quello che succede intervieni prontamente ed eviti la strage. È stato scelto lo stadio sbagliato visto che era in ristrutturazione e gli hooligans hanno potuto armarsi in un cantiere lì vicino. Uno stadio dove c’era già stato un morto. Quello che ho sempre detto è che la UEFA e le istituzioni sportive belga sono stati i mandanti, gli hooligans gli assassini materiali di 39 persone, cioè hanno disorganizzato l’ordine pubblico. Questo è spaventoso. Quello che succedeva ad Heysel poteva succedere a Basilea l’anno prima (Finale Coppa delle Coppe 1984 ndr). Quello stadio era allucinante, ci passava quasi una ferrovia solo che per fortuna non c’era rivalità tra i tifosi. Quelli del Porto erano tranquilli così come quelli della Juve. Questo mi ha impressionato sinceramente, cioè l’idea di andare a vedere una partita come Juventus-Liverpool, che era considerata la finale del secolo, in pratica quasi con la consapevolezza di andare a perdere la vita perchè c’erano condizioni inaccettabili per qualsiasi partita di calcio, figuriamoci per una finale di Coppa di campioni. Poi c’è un’altra cosa che mi ha colpito…»

Prego…
«Al di là dei biglietti bagarinati all’interno, del fatto che ci hanno lucrato sopra, mi ha colpito il fatto che delle persone arrivate lì una volta viste la situazione hanno detto: “Ma io mio figlio a farlo ammazzare dagli inglesi non ce lo porto” e clamorosamente trovano biglietti o scambiano il biglietto della curva Z per andare da altre parti. Perchè c’erano altri posti oltretutto».

Quindi c’era consapevolezza dl pericolo, non si trattava solo di una fatalità
«Sì c’era. Gli hooligans erano instupiditi dall’alcool poi improvvisamente buttano giù la rete, attaccano il settore Z e lo fanno all’inglese cioè attaccando e ritirandosi, attaccando e ritirandosi e questo è devastante per le famiglie italiane, che non sapevano niente delle guerre ultrà allo stadio».

Tu ti sei confrontato con qualche superstite o qualche famigliare di superstite, qual è la cosa che ti ha toccato di più e che ti porti dentro ancora?
«Io mi porto dietro tante cose. La frase di Carla Gonnelli che ha detto: “Quando si dice che il tempo è galantuomo vuol dire che non si è mai passato cose del genere”. Perchè lei ha perso il marito, l’ha visto partire e poi l’ha rivisto dentro una bara. Dopo tanti anni ha detto che ha un vuoto ancora più profondo. Quindi la tristezza che si aggiunge a tristezza. Questa mancanza di memoria da parte di tutti ha contribuito ad acuire la tristezza. Io conoscevo bene Roberto Lorentini, frequentava casa mia quando avevo 15 anni. Pensa io dovevo andare con loro all’Heysel».

E poi?
«Avevo fatto una scommessa con mio padre in seconda liceo: avevo latino un po’ barcollante e l’ultimo compito prendo 5 quindi perdo la scommessa e non vado. Ho dei ricordi molto forti di Roberto ed è una storia molto personale. Oppure Giuseppina Conti che proprio da questo punto di vista è il mio contraltare. Anche lei di Arezzo, liceale, pagella bellissima e il padre come premio la porta all’Heysel e lui è tornato con la figlia nella bara. Aveva 17 anni».

Per un 5 in pagella non sei andato lì ma come hai vissuto quella partita sapendo che potevi essere lì e che avevi un amico di famiglia in quello stadio?
«Io l’ho vista male perchè la partita non inizia e tutti ci chiedevamo perchè. Ovviamente a quel tempo non c’erano i cellulari, i social e i mezzi di cui disponiamo ora, c’era una tecnologia abbastanza immobile. Eravamo a casa di un amico e arriva la telefonata di mia madre che mi dice: “Roberto è ferito”. Ovviamente non era vero ma non lo sapeva neanche lei in quel momento perchè Otello, prima di dire alla moglie che l’unico figlio era morto, ci ha messo un po’ di tempo ma quando mia madre mi chiamò Roberto era già morto. Io sono andato a casa di un altro amico a dormire, ovviamente con il morale a pezzi, mentre ad Arezzo come in alte città si scatenava la festa e i caroselli e questo mi ha ferito molto. Poi la mattina mi sono alzato con la notizia che Roberto era morto e andare a scuola è stato parecchio pesante per me: c’erano i ragazzini che prendevano in giro la Juve e la coppa insanguinata e cose così. La cosa brutta è che ok, da ragazzini si è sciocchi e ignoranti per definizione però purtroppo quelle battute sono durate anche in età adulta e lì diciamo che non sto neanche più zitto».

Parlami di questa associazione che hai citato prima
«L’associazione che ha fondato Andrea Lorentini (nipote di Otello) sta crescendo. Otello muore nel 2014 e Andrea diventa giornalista come me e dirige un settimanale  qui in città. Come si fa a difendere i morti e i cari che vengono continuamente offesi? Ha rifondato l’associazione con tutti i famigliari. È stata un’operazione molto importante per la memoria, con un concetto fondamentale: seminare non fare che questa diventi un feticcio. Cioè non onore ai morti in senso paramilitare. Meglio andare nelle scuole, fare dei convegni, seminare in un Paese dove tutti ti dicono: “ma tanto non cambierà mai niente”, noi facciamo guerriglia da questo punto di vista contro un esercito numerosissimo cercando di seminare un po’ di cultura sportiva e insegnare che agli stadi ci si deve andare in altro modo».

Che effetto fa quando vedi degli striscione canaglia da parte dei tifosi avversari?
«Soffro tanto. Sofferenza fisica e mi dà molto fastidio, una sofferenza fisica visto che conoscevo Roberto e soffro ancora di più quando vedo offendere Superga piuttosto che Facchetti ecc. In questo voglio fare una riflessione: chi offende i morti dell’Heysel o di Superga o tutti gli altri morti sono gli stessi che oggi chiedono di non giocare per rispetto dei morti e c’è il rischio che quando torneranno negli stadi torneranno a offendersi ognuno i morti dell’altro. Ci vorrebbe un pochino in più di coerenza, onestà intellettuale e memoria. Senza memoria condivisa dell’Heysel, guarda caso, si fa più fatica spiegare queste cose».

Si ringrazia Francesco Caremani per la disponibilità e la cortesia mostrate in occasione di questa intervista

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