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Amarcord Giovinco: «Ecco la mia storia alla Juventus»

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La lettera di Sebastian Giovinco, ex giocatore della Juventus, sul suo periodo in bianconero. Ecco le parole della Formica Atomica

La Formica Atomica, Sebastian Giovinco, ripercorre i suoi momenti alla Juventus. Il giocatore si è affermato in MLS con il Toronto ma ha scritto una lettera per ricordare i suoi primi anni in bianconero: «La scuola divenne un di più. Passavo tutto il giorno ad allenarmi con questa squadra, San Giorgio Azzurri. Potevo giocare ovunque potevo: campi, parchi in città, anche in casa con mio fratello minore Giuseppe. Era un appartamento piccolo per tutti e quattro, c’era una sola stanza da letto in cui c’erano i miei. Io e Giuseppe dormivamo in salotto e durante il giorno giocavamo tirando contro il muro. Mamma impazziva. ‘Seba, hai rotto un’altra cornice!’. Non avevamo molto. Vivevamo a 15 miglia dal Delle Alpi, ma non avevo mai avuto i biglietti per andare a vedere la Juventus. Figuriamoci per comprare i completini. Ricordo che papà, che lavorava nelle industrie siderurgiche, risparmiò soldi per un anno intero per potermi comprare le mie prime scarpette. Ma a me non interessava della scarpa, della maglia: l’unica cosa che m’importava era essere in campo».

«Dopo un anno più o meno, uno scout della Juventus mi invitò ad unirmi al settore giovanile. Sembra assurdo, ma successe proprio così velocemente. Un giorno giochi per una piccola squadra locale, quello dopo ti prende un grande club. Almeno a me successe così: un uomo si presenta a me e parla con mio padre, il giorno dopo facevo parte del vivaio della Juventus. Poiché vivevo vicino al centro sportivo, continuai a vivere con i miei genitori. Ogni mattina papà mi accompagnava con la sua Renault 5. Poi tornava a casa e accompagnava mamma a lavoro. Quindi la andava a riprendere la sera, affinché potesse prepararmi da mangiare mentre lui mi veniva a prendere all’allenamento. Posso giurare che fece tanti di quei chilometri, che doveva cambiare Renault ogni due anni».

«A papà non piaceva il calcio. Tifava Milan ma non l’aveva mai visto giocare nemmeno in tv. Quindi lui era felice che io giocassi nella Juve finché lo ero io. E per un periodo non fui contento. Avevo 15-16 anni e non giocavo quasi mai. Così la maggior parte delle volte che tornavamo a casa mi mettevo a piangere. Un giorno fermò la macchina e disse: ‘Seba, domani non ti ci riporto’. Lo guardai, asciugandomi le lacrime. ‘Perché?’. ‘Perché non ti sto portando qui per piangere’. Ci pensai un attimo, mi dissi che non dovevo piangere ma lavorare duramente. E vincere. Che era tutto ciò che si aspettava il club».

«Niente lacrime, niente di niente. C’è questa mentalità alla Juve, molto semplice: vincere. Ti insegnano il rispetto e a vincere con rispetto. Ma alla fine del giorno, conta solo una cosa: vincere. Questo modo di pensare fu impostato in me fin dal primo giorno. Soltanto vincere. Quando avevo 17 anni fui portato nell’ufficio dell’allenatore per firmare il mio primo contratto ufficiale con la Juventus. Ero minorenne, quindi mio padre venne con me. E io portai con me mio padre per fargli firmare un’altra cosa, un contratto per un nuovo appartamento. E’ stata la prima cosa che ho comprato per la mia famiglia, dove ognuno aveva una stanza».

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