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La Juve non ha sentimenti. Tre punti per evitare la psicanalisi

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La Juve non ha sentimenti. Tre punti per evitare la psicanalisi. Per i bianconeri un successo importante a livello psicologico

Vorrei partire da una valutazione forte, che magari suonerà provocatoria: la risicata vittoria sul Lecce non è né meno importante, né meno positiva di quella con la Lazio. Per due fatti, uno evidente, l’altro meno. Il primo è che rimette in moto una squadra uscita stordita da Reggio Emilia. Il secondo è che a questo shock ha risposto azzerando l’emotività. La Juve di martedì sera è sembrata una squadra senza sentimenti. Nulla poteva scuoterla, neanche i giusti fischi al momento del riposo. In questa situazione, conquistare 3 punti non era affatto ovvio.

La gara è partita bene, come atteggiamento, c’erano intenzioni arrembanti, McKennie e Cambiaso alti, una certa aggressività e il tentativo di andare anche abbastanza per le spicce, con 3 conclusioni in 5 minuti. Poi, non raccogliendo frutti, nel senso che non sono nate occasioni reali, si è cercata un’altra strada ed è come se affievolendosi l’impulso iniziale la squadra avesse scoperto la sua povertà di idee. Più che darci il pallone tra i piedi non sappiamo e quanto ci sia paura di sbagliare lo si è visto dalla poca, pochissima capacità di alzare la pressione. Sembrava di rivedere i nostri puntualissimi ritardi nell’accorciare sulla circolazione palla altrui, che è stato il terrificante ossimoro dell’anno scorso, salvo qualche sporadica eccezione. Poco prima della mezzora l’occasione per passare finalmente l’abbiamo avuta, Danilo ha servito Chiesa che in area non ha trovato il gol. Un peccato, ne ha fatti di ben più difficili, ma evidentemente non si diventa una punta che ha percentuali di errore minime in qualche settimana, nonostante il suo confortante avvio di stagione.

La Juve in attacco è sembrata condannata a dover fare azioni con partecipazione di molti. Più irruenza che logica, non avendo soluzioni corali, schemi offensivi di qualche tipo, situazioni a memoria codificate anche solo un po’. C’è stato giusto un minimo accenno di Milik – alquanto involgarito nella tecnica – che ha provato a uscire fuori e fare un po’ da trequartista, probabilmente Vlahovic si muove meglio, obbliga a farsi dare il pallone di più. Non ci sono stati uno contro uno efficaci, non c’è mai stata una giocata che fosse uno spunto improvviso, un lampo in grado di sparigliare un Lecce ben messo in campo e nulla di più. Anzi, se vogliamo, siamo stati noi a faticare di più nel recupero palla, vedi i troppi falli di Bremer, che ha voluto evitare che Krstovic fosse un altro Zirkzee, ma puntualmente è caduto nell’irregolarità. In generale si è vista una squadra bloccata: è molto evidente che chi ha la palla tra i piedi va in difficoltà e nessuno si avvicina per aiutarlo, accenni a qualche movimento oltre la zona di competenza.

Stanti così le cose, lo 0-0 finale poteva rientrare nell’ordine delle possibilità. Perché la gara è sembrata esattamente riprendere sulla stessa falsariga dei primi 45 minuti. Il Lecce traccheggia, la Juve aspetta, non si vede cosa possa cambiare. E mentre in tv si dice che Allegri sta pensando addirittura a un triplo cambio all’insegna della rivoluzione – Nicolussi Caviglia, Iling-Junior e Vlahovic a fare la parte del leader più esperto -, nasce il gol dal giocatore più centrato in gara per continuità – McKennie – che in area di rigore massimizza la tecnica che ha e inventa un cross calibrato. Ed il paradosso è che i due giocatori fino a quel momento più deludenti, in relazione alle potenzialità che possono esprimere, riescono finalmente a fare bene ciò che è nelle loro corde: sponda aerea di Rabiot, deviazione a pochi centimetri dalla porta ad opera di Milik. La Juve si sgela, finalmente? No, non come urla il tecnico, che vorrebbe si insistesse in verticale in certe situazioni favorevoli. Invece la testa è rivolta più all’indietro, giusto Chiesa si inventa un’iniziativa delle sue, altrimenti tutti sono più preoccupati di conservare una sufficiente misura d’ordine. Come se le montagne russe di queste prime partite non fossero più concettualmente accettabili, diventa allora più preferibile allacciarsi con l’avversario, talvolta anche provare un po’ d’affanno in qualche recupero e ottenere forse il vero obiettivo della serata: far trascorrere 90 minuti a Szczesny senza alcuna parata. E guardare oltre – almeno fino a Bergamo – invece che dentro se stessa, evitando una seduta di psicanalisi che ci avrebbe fatto scoprire nient’altro che il nostro attuale deserto sentimentale, la sola condizione per vincere ieri sera.

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